News & Approfondimenti

“La sillaba mancante”
Luigi Russi (Professore Università di Bangalore, India)

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L’immaginazione è uno dei processi più suggestivi ed entusiasmanti cui sia possibile partecipare tra esseri umani. E a Pozzuoli, per tre giorni, abbiamo immaginato. Ci siamo, cioè, scambiati strumenti culturali per pensare altrimenti le condizioni di partenza, intuendo possibilità nuove per l’agire comune. L’immaginazione, come scambio in simbiosi, fertilizza e — per dirla con uno dei relatori più apprezzati del Festival delle Idee Politiche, il filosofo Aldo Masullo — rende dunque felici, nel senso etimologico di «fertilizzati»: culturalmente ispirati. Dunque, questa seconda edizione del Festival è stata occasione di grande felicità, e fertilità.

Ma l’immaginazione, quale aiuto per il nostro ambulare verso nuove possibilità dell’agire comune, suggerisce al tempo stesso origini e punti di partenza, da cui muove la vita di un collettivo. L’immaginazione ci mette in comune, insomma, intrecciandoci in uno sforzo comunicativo volto a intuire le conseguenze di quella comunanza.

È da questo viaggio a ritroso, dall’immaginazione al movimento dell’azione umana nel suo farsi, che desidero trarre spunto per condividere alcune scoperte che il Festival ha offerto a relatori come il sottoscritto: quei punti di partenza che sono emersi agli occhi di chi, come me, giungeva a Pozzuoli per la prima volta.

CittàMeridiana, l’associazione che ha ideato il Festival, nasce da un’esperienza di memoria comune, immortalata nel libro Terre e Moti del Cuore (ed. Valtrend, 2013), una raccolta di saggi e testimonianze sull’esperienza delle due grandi crisi bradisismiche di Pozzuoli, negli anni ’70 e poi ancora negli anni ’80. Furono, queste, esperienze per molti versi traumatiche: di sfollamento, di abbandono ed esilio, di paura profonda, di perdita. Un quartiere di Pozzuoli, il Rione Terra, giace ancora abbandonato dal 1970, e da allora resta largamente inutilizzato, ferita tuttora aperta, ad eccezione del Palazzo Migliaresi — sede del consiglio comunale — dove si è simbolicamente svolto gran parte del Festival.

L’esperienza del bradisisma, come è facile intuire, ha segnato profondamente il territorio e, andando a intessere trame nuove proprio a partire dall’abbandonato Rione Terra, il Festival costituisce a mio avviso un tentativo di insinuare in quella dolorosa memoria un significato prospettico per l’agire futuro. Se il sisma rende drammaticamente coscienti del nostro vivere ‘assieme’, l’interrogativo cui il Festival pare voler rispondere è dato dalla ricerca dei possibili significati di questa scoperta, del nostro appartenere ad un trascorso comune. L’introduzione a Terre e Moti del Cuore esprime bene le possibilità creative ed immaginative che lo scoprirsi in comune mette a disposizione delle aggregazioni che si formano intorno a quel sentire: “si e’ sprigionata un’energia positiva e contagiosa di conoscenza, riconoscimento e vicinanza, dimostrando, una volta di più, il potenziale di comunicazione  e produzione di un senso che può esprimersi mettendo in comune la memoria” (p. 4).

Questo processo, il mettersi in comune attraverso la partecipazione ad uno sforzo immaginativo condiviso verso futuri possibili, ha finito per lasciare le sue tracce pure su di me, iscrivendosi nella mia personale esperienza di trasformazione in qualità di relatore e partecipante. Il Festival ha significato, difatti, un progressivo assottigliamento della mia corazza accademica di “esperto”; un dovermi mettere in gioco, distendendo la mia immaginazione sulla geologia tumultuosa della caldera flegrea, e in dialogo con la vulcanica curiosità degli altri membri di questa eterogenea comunità: studenti, insegnanti, rappresentanti locali, registi, filosofi, attori, poeti, attivisti.

Se sono arrivato Luigi, mi piace allora pensare che riparto da Pozzuoli Lui’. Pure io, finalmente, parte partecipe — in maniera anche linguisticamente riconoscibile — di una comunità in un viaggio di auto-educazione e scoperta di nuove possibilità attraverso le quali decifrare ed emancipare il significato della tumultuosa storia di Pozzuoli. La sillaba mancante, insomma, è quella che lascio in questo movimento culturale, a testimonianza di un’appartenenza acquisita. Per rivederla, potrò d’ora in poi soltanto tornare a Pozzuoli.

 

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“Disseccamento degli ulivi e tecnologia appropriata”
Luigi Russi (Professore Università di Bangalore, India)

Si sta consumando, in Salento, uno scontro tra proprietari di uliveti ed apparati di salute pubblica; ciò esemplifica una serie di punti da me affrontati ne In Pasto al Capitale, punti che desidero approfondire brevemente.
Il confronto cui faccio riferimento ha assunto toni mediatici a seguito di una serie di passaggi. Innanzitutto c’è il ricorso al Tar della Puglia presentato da due giuristi, in qualità di titolari di uliveti a Oria, a cui sono seguiti quelli, questa volta presso il Tar del Lazio, di altre aziende agricole biologiche della zona. Si tratta di ricorsi coi quali vengono impugnati i provvedimenti adottati dal Commissario Straordinario di nomina governativa conseguente alla dichiarazione dello stato di calamità nella regione a causa del fenomeno del disseccamento degli ulivi. Un’ulteriore cassa di risonanza è stata poi la campagna civica a difesa degli ulivi (#difendiamogliulivi) amplificata dai social networks, specialmente per il supporto offerto dai Sud Sound System. Il nodo della questione, come anticipato, consiste nel problema del disseccamento degli ulivi, che ha colto di sorpresa la regione salentina. Una delle possibili spiegazioni scientifiche del fenomeno pare sia un batterio, la xylella fastidiosa, trasportata da particolari insetti (cicadellidi), che si riprodurrebbe in colonie gelatinose all’interno dei vasi xylematici (linfatici) della pianta, comportando — stando ai sostenitori della tesi — un’occlusione che ne farebbe seccare foglie e rami, fino a ridurla a uno scheletro di legno. Uso ‘pare’ perché, come spesso accade, la diagnosi non è certa. Potrebbe — altri sostengono — anche trattarsi di funghi che, anziché essere conseguenza dell’infezione da xylella, sembrerebbero invece contribuire in maniera autonoma al disseccamento della pianta, andando a colonizzare e occludere i vasi linfatici dopo essersi insinuati nelle gallerie aperte nella corteccia da altri insetti (lepidotteri).
Quale che sia la causa, il lento ma inesorabile impoverimento dell’ecosistema-uliveto per via dell’uso, negli anni, di pesticidi lo avrebbe poi privato di circuiti ecologici in grado di contrastare autonomamente le dinamiche di disseccamento (per esempio andando a controllare efficacemente le popolazioni di lepidotteri che scavano la pianta — facilitandone la colonizzazione micotica — o di cicadellidi in grado di diffonderne i patogeni — ove si trattasse del batterio). Insomma, non si sa per certo cosa provochi il disseccamento, al punto che anche in sede comunitaria è vivo il dibattito sul da farsi. Più in generale, la ricerca di singole cause — rispetto a problemi generati da un ecosistema di fattori biologici e di interventi umani in tensione fra di loro — non sembra offrire argomenti risolutivi a supporto dell’ipotesi-xylella. E, anche se di xylella si trattasse, i suggerimenti in termini di possibili soluzioni divergono radicalmente.
La risposta delle pubbliche autorità a questo tipo di incertezza è stata quella di provare a sgomberare in via preventiva diversi uliveti così da creare una ‘zona cuscinetto’. Dunque: abbattimento di ulivi — anche secolari — al fine di ‘limitare focolai di infezione’, e uso di pesticidi per controllare gli insetti vettori (pesticidi che paradossalmente, come detto sopra, potrebbero pure essere uno dei fattori scatenanti dell’epidemia di disseccamenti attraverso un’azione lenta ma decisiva di impoverimento delle ridondanze ecologiche). Questo tipo di approccio ha suscitato l’ira dei proprietari di uliveti (specie di quanti fanno del mancato uso di pesticidi il carattere portante della produzione di olio biologico, tra cui le aziende ricorrenti al Tar di cui sopra) e di una parte crescente della società civile. Alcuni hanno addirittura chiamato in ballo un presunto complotto, sostenendo una combutta con una ipotetica multinazionale produttrice di ulivi geneticamente modificati per resistere alla xylella, che trarrebbe da questa crisi una grande opportunità di mercato. Senza indulgere in teorie complottistiche (che, ad analisi attenta, tendono a scricchiolare), desidero comunque salvare parte del sentimento che simili storie cercano di articolare, sia pure in maniera alquanto improbabile, e che trova una delle sue possibili espressioni nel disagio diffuso di quanti si oppongono alle misure draconiane di abbattimento e all’uso forzato di pesticidi.
Faccio riferimento al fatto che il ‘controllo’ e il ‘potere’ non debbano per forza esprimersi nella maniera lineare proposta dalla teorie dal complotto. Esistono forme di cooptazione, diciamo così ‘culturali’, per cui certe pratiche a cavallo tra l’agronomia e la salute pubblica finiscono per assumere come standard di normalità quello di una sezione soltanto della produzione agricola, imponendo per tutti soluzioni ‘a tappeto’ che sono invece tipiche di una certa cultura dell’agroalimentare su larga scala. Ne In Pasto al Capitale menziono, come ulteriore esempio, la resistenza di Genuino Clandestino all’imposizione generalizzata di regolamentazioni produttive nate all’interno della pratica agricola ‘su scala industriale’ (dove, se qualcosa va storto, i rischi per la salute possono essere notevolissimi e difficilmente controllabili). Chiedere, a prescindere da una seria valutazione delle pratiche produttive ed igieniche specifiche al contesto della piccola produzione, investimenti simili a chi fa tonnellate di marmellata e a chi ne produce pochi chili, finisce tuttavia per ammazzare questo secondo segmento di produttori. In maniera simile, la questione del disseccamento mi pare adombri simili questioni di democrazia, nel riconoscimento di diversi modi di interpretare e praticare l’agricoltura. Da un lato, soluzioni ‘su scala’ (abbattimento, pesticidi). Dall’altro, un mix di approcci meno invasivi: dall’applicazione di buone tecniche agronomiche — specie la potatura delle parti secche — al suggerimento di apporre reti attorno agli ulivi infetti, in modo da fare sì che gli insetti vettori della xylella (se di xylella si trattasse) non possano trasmettere il batterio da una pianta all’altra. A riprova della validità di queste tecniche, molti osservano come diversi uliveti sembrano avere recuperato dal disseccamento, se trattati con protocolli agronomici appropriati, simili a quelli testé descritti. In altre parole, un’attenzione ai caratteri di ecosistema dell’uliveto può quantomeno contrastare in maniera valida il fenomeno del disseccamento, all’infuori di schemi eccessivamente lineari che pongono il problema in termini astratti — scevri da un apprezzamento olistico delle dinamiche ecologiche in opera — imponendo così l’abbattimento di ulivi (e uliveti), e/o l’irrorazione con pesticidi.
Insomma, la battaglia per gli ulivi del Salento rappresenta l’apice di un più diffuso contrasto tra saperi locali, vernacolari ed ecologicamente appropriati da un lato e, dall’altro, corpi di pratiche e conoscenze ‘astratte’, per così dire, da forme di intendere l’agricoltura come processo da rendere controllabile ed analizzabile secondo schemi lineari di causazione. Questa battaglia per una democrazia dei saperi e delle tecnologie, va salvaguardata dall’esperienza salentina, come micro-cosmo di conflitti più profondi tra diverse concezioni del rapporto con la terra.

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Atmosfere di indifferenza”
Luigi Russi (Professore Università di Bangalore, India)

Carlo Levi scriveva su «La Stampa» il 7 febbraio 1957, da Nuova Delhi, di aver avuto l’impressione (l’italiano è la mia ri-traduzione dall’edizione in inglese dei suoi Scritti sull’India) di un ‘nascondiglio’, nel quale il potere si faceva inscrutabile ai sottoposti. L’occhio attento di Levi aveva colto, in questo breve passaggio a Nuova Delhi, un tratto curioso non solo dell’India. Mi riferisco, cioè, alla capacità di orchestrare bolle di indifferenza, dentro alle quali regni l’illusione di avere tutto quanto possiamo desiderare, e dove possiamo trovare un senso immediato, quanto superficiale, di sicurezza. Se l’atmosfera non è altro che una bolla d’aria, possiamo allora provare a chiamarle atmosfere.
Di atmosfere se ne incontrano ovunque. Quando arrivi all’aeroporto Kempe Gowda di Bangalore, e ti sottoponi ai quaranta chilometri di asfalto che lo separano dalla città, il campo visivo è costantemente invaso da cartelloni che ti vendono la stessa cosa. Atmosfere. ‘Appartamenti a due/tre camere in complesso di lusso’, ‘Oasi di quiete nella città’. Le immagini, quasi sempre, sono foto di palazzoni presi — più o meno a caso — da internet, o ‘ricostruzioni grafiche’ piene di alberi, con marciapiedi lisci, scintillanti, senza calca. Questo è il mondo delle gated communities, palazzoni circondati da mura, cancelli e guardie. Un amico di Bangalore mi ha confessato una volta di non sentirsi parte della città e, appena qualche frase dopo, cercava ugualmente — imperterrito — di vendermi l’idea di vivere in una comunità che non avrei mai avuto necessità di lasciare: ‘C’è pure il supermercato!’. Per non parlare delle cosiddette ‘zone economiche speciali’ (di cui parlo brevemente anche ne In Pasto Al Capitale), vere e proprie città nelle città sottoposte a regimi legislativi speciali, con tanto di ‘punti di confine’ ed eserciti privati che ne controllano l’accesso.
Ma la corsa all’atmosfera è ovunque. Durante la traversata per l’università nello Stige mattutino del traffico, scorgo nelle auto attorno al mio bus molti veicoli con il solo guidatore. Quasi sempre un giovanotto (il genere è importante), magari fresco di università, per il quale la macchina è l’ultimo passaggio in una lotta per l’indipendenza. Dai mezzi pubblici, alla moto, fino alla macchina: la bolla per eccellenza, dove inquini senza respirare il tuo smog. Bangalore, è vero, è esplosa economicamente con il fenomeno delle esternalizzazioni: quando ero ancora uno studente nel Regno Unito, chiamai un call center di assistenza e, riconoscendo l’accento, chiesi all’operatrice: ‘Ma dove si trova?’ ‘A Bangalore’. Eppure, in questo traffico selvaggio che richiede ore per fare tra i cinque e i sette chilometri, non c’è solo la legge malthusiana dei numeri e il determinismo economico della crescita. C’è anche e soprattutto il convincimento che l’affermazione coincida con la possibilità di comprarsi una fetta di isolamento atmosferico, una piccola bolla, che ci separi dal clamore del mondo. Qui, di quel famoso monito carico di disprezzo (da alcuni attribuito alla non compianta Margaret Thatcher), si sente ancora l’eco: ‘Un uomo che, dopo i ventisei, prenda ancora il bus può considerarsi un fallito’. Carlo Levi ci aveva dunque visto giusto, cogliendo l’immagine del potere nell’isolamento, nel nascondere e nascondersi. Un’immagine che incanala il desiderio di emancipazione nella costruzione di muri che rendono il resto del mondo un sito a noi estraneo.
Ma il gusto per l’atmosfera, lungi dall’essere un fenomeno solamente indiano, è ovunque: si tratta di un topos genericamente umano. Si pensi ad Amalia, la protagonista di Napoli Milionaria di Eduardo De Filippo, di come essa trascorra gli anni a testa bassa, espellendo dalla sua casa la memoria di una vita di stenti (quale spettatore non resta attonito al cospetto del ‘vascio’ completamente rinnovato che apre il secondo atto?). La sua missione, impossibile, pare appunto quella di costruirsi un’atmosfera. Un’atmosfera che, come una bolla, le esplode in mano quando il ragioniere torna, nell’atto conclusivo, per porgerle — gratuitamente, dopo che lei lo aveva rovinato negli anni — la medicina che salverà la vita di sua figlia. Solo a questo punto Amalia, incredula, scuote la testa e ripete laconicamente: ‘Che è successo?’. Quello che è successo è che, quando si ergono barriere insormontabili, decade la capacità di deliberare responsabilmente. Se, infatti, la responsabilità è un fenomeno collettivo, un gesticolare nel traffico per andare avanti tutti assieme, l’atmosfera è l’opposto. Corrisponde alla costruzione di muri che non ci fanno vedere l’altro, che impediscono — o semplicemente rimandano — il disorientamento propedeutico alla rinnovata collaborazione nella ricerca, in comune, di un senso. L’atmosfera rende dunque invisibili: è mancanza di chiarezza, come la notte (‘a nuttat’) che ‘adda passà’ perché si torni a vedere e a potersi muovere di nuovo assieme.

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“Ma, in India, di che ti occupi?”
Luigi Russi (Professore Università di Bangalore in India) si racconta

Da poco più di sei mesi vivo e lavoro in India. Qui divido il mio tempo tra Bangalore, sede della mia università, e Shillong, casa della famiglia della mia compagna. Professionalmente, mi occupo di sociologia culturale; il che, in termini astratti, non vuol dire granché neanche tra sociologi. Concretamente, mi interesso della quotidianità: di come le persone fanno quello che fanno, di come si orientano in mondi che, nel profondo, non mancano mai di stupirmi per la loro elegante complessità.

Il libro di cui vi parlerò a Pozzuoli, In Pasto al Capitale (Castelvecchi, 2014), è nato quasi per caso. Si è fatto largo a partire da una curiosità per la quotidianità della pratica contadina. Ma questo, ebbi modo di realizzare in seguito, non sarebbe stato che l’inizio di un’inchiesta che mi ha portato a scandagliare altre (talora improbabili) quotidianità collegate alla prima, e non sempre per il meglio: dai broker stile ‘lupo di Wall Street’ (dei quali, se vi è capitato di leggere il libro, saprete che mi colpisce soprattutto l’udito), ai produttori di caffè, agli ingegneri che piantano la jatropha in Mozambico, fino all’amico che si prende la tazzina di Nespresso. Insomma: partendo dal quotidiano, si sa dove si comincia, ma non sempre dove si finisce. E questo vale pure adesso: difatti sto divagando… Tornando a noi, mi pare che l’unica cosa che le quotidianità abbiano in comune è di essere, nei loro intricati dettagli, infinitamente diverse. Ed è proprio in questa diversità che le nostre nozioni del ‘normale’ si sciolgono. O dovrebbero sciogliersi.

E qui arriviamo alla domanda con cui ho cominciato questo blog. Da quando mi sono spostato in India, infatti, ho incontrato una curiosa (e sicuramente bonaria) reazione, ma che non ha mancato di colpirmi, in quanto tocca proprio questo nodo. Mi riferisco all’attesa che, siccome mi trovo in India, di ‘India’ mi debba occupare, quasi a ergere un recinto entro il quale intellettualmente io debba essere, per certi versi, prigioniero. ‘Di cosa ti occupi, in India?’ La mia risposta, ormai rodatasi sull’ingenua curiosità di colleghi e conoscenti, è un inelegante ‘Quello di cui mi occupavo anche prima!’ (come a dire: solo mo’ ti interessa quello che faccio?)

Non è curioso tutto ciò? E cioè che, se uno fa ricerca, ci si aspetta da lui automaticamente che sia uno specialista, o anche semplicemente un ‘appassionato’, del sub-continente (nel senso che i suoi interessi debbano avere in un certo qual modo una definizione geografica), ove gli capiti di trovarsi (in India). Eppure, quando lo spostamento è fatto verso Ovest, che so, in Olanda, Regno Unito o California, la domanda diventa più aperta: ‘Di cosa ti occupi?’ In quest’ultimo caso manca la pretesa di un fulcro di interesse schiettamente localistico. Io stesso, confesso, per molto tempo sono stato il primo ad avanzare scuse: ‘Mi sto ancora ambientando, non ho molta familiarità con l’India, ma non mancherò!’ Mi sono scusato fino al momento in cui mi sono reso conto delle ambiguità che si annidano in questa inconscia aspettativa, e di come intendevo posizionarmi rispetto ad esse.

Non intendo chiaramente negare l’innegabile, e cioè che uno si faccia trasportare e trasformare culturalmente dalla realtà in cui vive. O che uno non debba avere interessi definiti in termini geografici (ed essere, per esempio, uno studioso di ‘Italianistica’ o di ’Sinologia’). Ma intendo, piuttosto, rivendicare che tutti questi eventi possono aver luogo ovunque (non solo in India), e che il bisogno di appiccicare una tonalità localistica, quasi ad aggiungere ‘colore’, soltanto perché uno si trovi fisicamente in India, presuppone un orizzonte geografico normalizzante. Nel senso che, entro i confini del ‘nostro’ mondo, l’appendice geografica non sembra necessaria, mentre ricompare per posti che a questo ‘nostro’ mondo non appartengono.

La domanda è dunque insidiosa, in quanto suggestiva di un orizzonte limitato ai (e dai) confini nazionali, quasi che uno possa partecipare in India a dibattiti che sono sempre e soltanto ‘Indiani’ (e rivelatrice, al tempo stesso, di come il mondo ‘senza confini’ di cui a volte ci riempiamo la bocca non sia poi concesso a tutti). La distanza, implicita nel modo di articolare la domanda, ti impacchetta inconsciamente come ‘diverso’, ponendoti nella posizione di dover giustificare quella che appare come una deviazione dalla norma. Con questo, ovviamente, non intendo fare la predica a chi la domanda l’ha fatta (o me la farà), sospinto da un interesse genuino. Ma semplicemente rivendicare il senso della quotidianità (e del suo studio) come un invito che è limitato soltanto dalla voglia di abbracciarne l’espansività, al di là di delimitazioni geografiche. In quanto tale, pertanto, l’ambito del quotidiano è anche un naturale antidoto rispetto alle trappole di normalità e alle piccole prigioni intessute di aspettative che a volte, senza volerlo, ci costruiamo tra di noi.

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Reportage dall’Etiopia
(marzo 2015)

Laura Longo – associata a CittàMeridiana che tanto sta lavorando per l’organizzazione del Festival delle Idee Politiche – in questi giorni è in Etiopia con l’Associazione GMAnapoli (www.gmanapoli.org) per raccogliere pagelle, fotografie e report a favore del programma di Sostegno a Distanza.
Ci racconta una delle sue giornate di questa meravigliosa esperienza:

Shashamane, nel sud dell’Etiopia, è un caotico agglomerato di baracche e negozietti, tutti affacciati su un’unica strada principale. Dietro si diramano interi quartieri di sabbia e recinzioni, senza illuminazione, senza indicazioni. A qualsiasi ora del giorno e del pomeriggio, fino alla tarda sera, si vedono donne e bambine con la schiena piegata, intente a trasportare legna, erbe, utensili e grandi sacchi: lo fanno come se fosse la cosa più normale del mondo ed a me viene in mente quello che spesso ci diciamo in associazione: «l’Africa cammina sul dorso delle donne».
La ricchezza di questo luogo non è di certo negli oggetti, ma nemmeno nella natura, la stessa natura per cui questo continente è tanto conosciuto. No, la ricchezza sta nelle persone, nei loro sorrisi, ma anche negli occhi, occhi che parlano senza parlare.
Tre volte l’anno, i volontari del GMAnapoli vengono qui, presso la Missione cattolica di Shashamane, per raccogliere pagelle, fotografie e report sul programma di Sostegno a Distanza che coinvolge circa 700 bambini del territorio e permette loro di crescere studiando, nel proprio paese e per il proprio paese.
Nel nostro festival parliamo di diritti.Il diritto all’istruzione, qui, è privilegio. Alcuni bambini camminano chilometri per arrivare alla baracca più vicina che funge da scuola.

Il diritto al cibo, qui, è miraggio. Al centro nutrizionale delle suore de Foucauld bussano centinaia di donne con i propri piccoli malnutriti.
Il diritto all’acqua, qui, è quanto più lontano possa esserci dalla realtà: è da ottobre che non piove e da quasi un mese la popolazione locale non ha acqua. La sera ci arrivano rifornimenti di qualche tanica che bolliamo ed utilizziamo per lavarci. Ed ancora ci consideriamo privilegiati.
Il diritto alla salute, qui, equivale al pensiero della mera sopravvivenza. Ai lati delle strade si vedono persone accovacciate in terra, malati o matti, ignorati da tutti perché è normalità.
Il diritto al gioco, altra utopia: all’asilo sentiamo i bambini scandire le lettere in amarico e inglese, ma se chiediamo loro di fare disegni per chi li sostiene in Italia i risultati sono poco più che scarabocchi.
Parlare di diritti, a Shashamane, significa ripensare stili di vita in un’ottica globale. Ripensare i consumi, gli atteggiamenti, e anche le battaglie quotidiane.
Pensare di essere isole, territori distanti e non comunicanti, non ci aiuterà a cambiare le cose. E le cose, queste cose, devono cambiare. Non è un diritto, ma un dovere, sentirsi chiamati all’azione per un mondo diverso, più giusto, con più diritti per tutti“.

 

 

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5 pensieri su “News & Approfondimenti

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